«Là, in fondo, dietro alla cortina di fumo, questo uomo “barbone”» – Francesco Zanola
«Il 1° dicembre 1980, però, appena compiuti i 19 anni, sono partito alla volta di Bessimo: ricordo come se fosse ieri il momento esatto del mio arrivo, quando da lontano ho visto quella struttura diroccata che quasi cadeva a pezzi e dove, all’interno, c’era un grande stanzone colmo del fumo di sigaretta che riempiva l’aria fino al soffitto. Là, in fondo, dietro alla cortina di fumo, questo uomo “barbone” con accanto l’inseparabile Palmina pronto ad accogliermi.
Tutti mi fissavano, mi guardavano in modo strano anche se, probabilmente, ero io a guardarli in modo ancora più strano contando che, per me, per quel me del 1980, quello era un salto sulla luna dove, dopo averci messo il primo piede, ci ho messo anche l’altro, ho disfatto la valigia e ho iniziato il mio percorso. Io ero l’unico che viveva in pianta stabile in comunità, l’unico del gruppo di ragazzi che aiutava don Redento e che, in quel periodo, era già numeroso: andavo a casa solo nei fine settimana o addirittura una volta ogni due settimane ma, di fatto, ero sempre lì perché era “la comunità”, era il posto dove diventa reale il concetto del “vivere insieme un’esperienza di vita” dove, anche senza grandi professionalità – perché in quel periodo non ne avevamo in termini socio educativi – si portata il proprio pezzo di vita e solo con l’esperienza e con la convivenza, si cercava di aiutare chi aveva qualche problema in più.
All’inizio era una vita in comune che si basava sui principi di aiuto e di accoglienza, non si facevano troppe domande ai ragazzi che arrivavano volontariamente o tramite il passaparola tra genitori e famiglie o, ancora, per mezzo di qualche realtà pubblica che tentava di portare lì qualche giovane, davvero una rarità al tempo. Per me il 1981 è stato un anno sopra le nuvole: io avevo da poco 20 anni e venivo da una situazione famigliare di un certo tipo dove vivevo con mia mamma, mia nonna, mia sorella senza più il nonno e il papà scomparsi prematuramente. Venivo da lì e sono andato in luogo dove sentivo ogni giorno delle storie che lasciavano senza parole, storie di vita e di contesti difficili, impegnativi, esperienze pesanti di droga. Tra di loro don Redento era una figura che aveva l’alone intorno, era molto carismatico, forte ed energico e non solo fisicamente, era una persona che non potevi non amare, che lasciava il segno e che seguivi volentieri perché ti rendevi conto che c’erano testa e cuore, molto cuore.
Se non avesse fatto il prete avrebbe fatto sicuramente il bandito, lo dicevamo ogni tanto come battuta. Ricordiamoci che Redento veniva da un terra aspra, veniva dalla valle Camonica degli anni ’30 e ’40 dove c’erano poche risorse, dove la gente migrava per trovare migliori condizioni come aveva fatto anche mio suocero emigrato in Svizzera per cercare fortuna. Redento era una persona abituata a faticare, a non aver niente di regalato, era duro come la terra che l’aveva visto nascere ma ciò non lo rendeva comunque ostile nei confronti degli altri, non era prepotente, mai aggressivo e, anzi, aveva la capacità di ascoltare tutti anche restando fermo e deciso nelle sue idee. Mi colpiva, a volte, la sua capacità di ascoltare anche discorsi che io, dentro di me, ritenevo pesanti, fuori luogo e decisamente inutili. Sicuramente una persona come ce ne sono poche anche in confronto a oggi, periodo nel quale siamo tutti più “paludati” mentre lui, invece, era più limpido, sincero, trasparente e infatti o lo apprezzavi o non lo apprezzavi.
Ne abbiamo avuto la prova tangibile in un periodo della storia della cooperativa nel quale i rapporti con le ASL si erano intensificati: tra loro c’era qualcuno che lo adorava e qualcuno che non lo poteva vedere. Certo, in quel caso si trattava, forse, di uno scontro ideologico ma sono sicuro che se uno di quei detrattori si fosse fermato ad ascoltare, a conoscere davvero Redento, non avrebbe potuto non apprezzarlo – con tutti i suoi limiti, ovviamente, perché non va santificato o incensato come una divinità superiore, era oggettivamente burbero, però era anche capace di sorridere, non se ne stava lì imbronciato e tutti dovevano rigare dritto in silenzio, no, anzi, era una persona veramente piacevole […]»
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