«Dall’uscita del docu-film di Netflix sulle vicende di San Patrignano, molti ci hanno chiesto di esprimere una posizione, un parere ma non volevamo rischiare di fare commenti solo finalizzati al differenziarci e distinguerci attraverso polemiche sul passato.
Questo perché, come spesso accade sui temi legati al consumo di sostanze o alle dipendenze, il rischio è di parlare attraverso contrapposizioni e prese di posizione che rischiano di contrapporre piuttosto che aiutare a comprendere la complessità del fenomeno e dei sistemi di intervento e di cura.
Sicuramente il docu-film “Sanpa” ha avuto il pregio di riavviare il confronto e riflessioni su un tema che spesso va sui giornali e sui mezzi di comunicazione solo se si tratta di cronaca nera o se si parla di legalizzazione del consumo di droga. E il successo di questa serie televisiva conferma l’interesse all’argomento solo se intriso di cronaca nera, contrapposizioni politiche e ideologiche. Questo documentario ha, a mio giudizio, messo in evidenza i rischi, le possibili storture, le ambiguità e le fragilità da considerare quando ci si approccia allo strumento “Comunità terapeutica per tossicodipendenti”.
Questo strumento di cura è uno strumento molto delicato da maneggiare; le aspettative salvifiche che vengono proiettate sulla Comunità terapeutica dalla persona dipendente da sostanze, dalla sua famiglia, dalla politica e dalla società, se non adeguatamente razionalizzate, rischiano di generare distorsioni magiche che possono far perdere il contatto con la realtà. Questi ambienti di cura rischiavano e rischiano ancora oggi, di diventare dei mondi paralleli, mondi all’interno dei quali, la “missione” di “salvare dalla droga” può rischiare di far andare in secondo piano il tema dei diritti civili, delle responsabilità individuali, delle libertà di scelta e del rispetto delle diverse soggettività. Tali rischi possono avere una ricaduta concreta sia sulle regole interne alla comunità terapeutica ma soprattutto sul ruolo attivo e il protagonismo che l’utente deve avere nello stesso percorso di cura.
Cosa si può fare quindi per evitare che le deleghe salvifiche e magiche intacchino la razionalità degli interventi di cura realizzati nelle Comunità Terapeutiche? Formazione degli operatori, stile di lavoro caratterizzato dal lavorare non da soli ma in equipe – possibilmente multidisciplinari – , supervisione agli operatori.
Ma oltre a ciò serve soprattutto rispetto e riconoscimento civile delle persone dipendenti da sostanze: seppur siano consumatori di sostanze o tossicodipendenti non perdono alcun diritto civile e mantengono tutte le responsabilità civili e penali di ogni cittadino. Sicuramente può sembrare più facile organizzare interventi di cura nei quali sia possibile limitare le libertà soggettive partendo dal presupposto che un tossicodipendente non essendo lucido, rifiuterebbe scelte evolutive fino ad arrivare ad obbligare un tossicodipendente a curarsi, ma come ci ha mostrato Basaglia con il suo approccio sociale alla follia, il riconoscimento della soggettività e della libertà della persona non deve essere mai limitato o schiacciato o confuso con il sintomo o con la diagnosi.
Anzi, è proprio stimolando e promuovendo tali soggettività nello specifico percorso riabilitativo che si possono ottenere risultati maggiormente evolutivi. E questa non è solo una bella teoria, è evidenza scientifica. Tante comunità terapeutiche italiane con numeri ben più alti delle decine di migliaia di persone, fin dagli anni ’70 e ‘80 hanno dimostrato che è più conveniente, più efficace ma soprattutto hanno dimostrato che è possibile puntare sull’educare e non sul punire per curare le persone che si sono trovate a sviluppare problematiche legate alle dipendenze.
La lotta alle dipendenze è anche una lotta allo stigma e ai pregiudizi.
Due fatti possono mettere in evidenza quanto sia necessario lavorare anche su aspetti culturali e di giudizi etici e morali che pesano su tale problematica.
Un primo dato. Ancora oggi, a distanza di 50 anni da quando il fenomeno dei consumi di sostanze e delle dipendenze si è manifestato in maniera estesa e trasversale a tutte le classi sociali, culturali ed economiche, si fatica a considerare le dipendenze una specifica patologia.
Ancora oggi, circa il 30% del personale sanitario considera la dipendenza un vizio, una problematica legata alla scarsa volontà del singolo individuo e pensa che per uscirne bisogna “toccare il fondo” o usare metodi coercitivi; figuriamoci quale possa essere la visione presente nell’intera opinione pubblica. Chiaramente si tratta di una patologia complessa e multifattoriale che, come altre patologie ha diverse cause sia psicologiche che somatiche e inoltre può essere favorita o ridimensionata in relazione ad aspetti sociali, educativi o relazionali presenti nella vita della singola persona. Con le dovute attenzioni e con i dovuti distinguo si può utilizzare una certa analogia con le patologie legate all’ipertensione o al diabete.
Tutti consumiamo sale, tutti consumiamo sostanze psicoattive legali o illegali, tutti consumiamo zucchero. Solo alcuni che consumano sale sviluppano problemi cardiaci o di ipertensione, solo alcuni che consumano zucchero sviluppano il diabete e solo alcuni che consumano sostanze psicoattive sviluppano una dipendenza. Perché questo accade? Perché si tratta di patologie multifattoriali.
Certo che si tratta di malattie nelle quali vi è anche una componente comportamentale legata agli stili di vita – e anche alla forza di volontà del singolo – ma si tratta comunque di malattie e come tali prima vengono scoperte e curate e meglio è. Non è indicato per nessuna di queste patologie “toccare il fondo”, aspettare di vedere gli effetti peggiori per potersene occupare. Ma, quando cominciano a manifestarsi specifici sintomi è bene preoccuparsi perché si può trattare di malattie gravi che possono diventare croniche.
E continuando si può riflettere sugli interventi preventivi. Tutti concordiamo che è rischioso esagerare nell’uso di sale, nell’uso di zucchero e ancora di più nell’uso di sostanze soprattutto in giovane età, ma qua stiamo parlando di lavorare sulla prevenzione, sulla promozione di stili di vita sani, di aumentare la conoscenza e la consapevolezza, di aumentare gli spazi e le occasioni di ricerca di benessere, di cultura e di bellezza.
Un secondo dato che testimonia quanti sensi di colpa, quanti pregiudizi ci siano nell’affrontare questi argomenti lo si può notare nella solitudine e nell’isolamento delle famiglie e degli affetti delle persone con problemi di dipendenza. Nonostante diversi progetti ed iniziative finalizzate a ridurre i tempi di latenza di queste patologie, ancora oggi i dati ci dicono che mediamente una persona si rivolge ad un servizio specializzato delle dipendenze solo dopo 7-8 anni da quando sono iniziate ad emergere specifiche problematiche legate alla dipendenza. Anche le famiglie trascorrono molti anni senza rivolgersi ad un servizio e si tratta di anni di pesantezza e di solitudine nei quali ti vergogni e ti colpevolizzi di avere un figlio con determinate problematiche.
E in questi anni di isolamento e di solitudine spesso la situazione si aggrava. Alle specifiche problematiche si possono aggiungere problematiche penali, economiche, lavorative o di altre patologie invalidanti come epatiti, HIV, problematiche psichiatriche; complicanze che chiaramente rendono sempre più gravosa la situazione. Razionalmente può essere banale dire che, come per tutte le patologie, prevenire è meglio che curare e che la diagnosi precoce migliora sempre la prognosi ma per le dipendenze sembra difficilissimo muoversi in queste direzioni.
Per tutti questi motivi è fondamentale investire, oltre che nella clinica, anche in informazione e in cultura sia in termini di pubblica opinione che in particolare su tutto il personale sanitario, sociosanitario e sociale.
Sempre restando sul piano culturale ci si può chiedere quanto incida la legislazione vigente oggi in Italia, nel favorire o rendere più veloce l’emersione delle dipendenze dal sommerso.
Personalmente ritengo che la attuale legge nazionale 309 del 1990, seppur in alcune parti interpretata e corretta da sentenze successive, fondamentalmente sia una legge punitiva anche nei confronti dei consumatori. Moltissimi sono i giovani che sono in carcere non per spaccio o traffico ma per situazioni legate unicamente al consumo. Tale legge è stata il risultato di una intensa campagna tra chi, come Muccioli e alcune forze politiche, chiedeva punibilità e obbligatorietà della cura per i consumatori e chi, attraverso la campagna del CNCA conosciuta con lo slogan “Educare non Punire” spingeva affinché anche di fronte ai consumi di sostanze illegali prevalessero i diritti civili e la libertà di scelta della cura.
Con il, per certi versi, pregevole obiettivo di stimolare, ma si potrebbe anche dire, “forzare la scelta”, di curarsi del soggetto consumatore di sostanze, di fatto si generano delle distorsioni nella percezione di tali comportamenti. Che il consumo sia di fatto considerato un comportamento illegale e punibile penalmente porta con sé la necessità di nascondere, obbliga il consumatore a vivere questo suo comportamento nel sommerso o peggio ancora nella illegalità. Chiaramente non è facile trovare una soluzione legislativa che, senza rischiare di far passare l’idea di legalizzazione di tutti i consumi di sostanze illegali, vada nella direzione di punire unicamente le attività di produzione, traffico e spaccio di sostanze illegali e favorisca, promuova l’emersione dei consumatori consentendo o agevolando una più celere attività diagnostica e clinica.
Personalmente ritengo quindi che dopo 30 anni sia il tempo di rimettere mano alla legislazione nazionale cercando di separare il più possibile il piano giuridico-legale-penale dal piano clinico e di assistenza e cura delle dipendenze patologiche».
Giovanni Zoccatelli
Presidente della Cooperativa di Bessimo ONLUS